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Ragioniere e Dottore Commercialista: una storica diatriba tra differenziazione ed unificazione |
Sommario: 1. Introduzione – 2. L’origine storica della professione di ragioniere – 3. L’origine storica della professione di dottore commercialista – 4. La definizione ufficiale delle funzioni della categoria dei dottori commercialisti – 5. La diatriba tra i due ordini professionali dal secondo dopoguerra ad oggi – 6. Il processo di riunificazione.
1. Introduzione
Sebbene giuridicamente distinte, le categorie professionali di “Ragioniere” e di “Dottore Commercialista” risultano essere alquanto omogenee, soprattutto dal punto di vista funzionale. Tale omogeneità non è dovuta solo alla sovrapposizione delle funzioni professionali delle due categorie, ma anche e soprattutto alla “insufficiente distinzione dei requisiti costitutivi di ogni professionalismo monopolistico e cioè, l’acquisizione di un autonomo campo sistematico di conoscenze, di un autonomo ideale di servizio e di un autonomo controllo professionale interno”[1].
Ciononostante, le su menzionate due categorie, proprio in virtù delle loro affinità, non hanno mai completamente acquisito i caratteri della “specialità funzionale”, venendo così a costituire una vera e propria anomalia nel quadro delle libere professioni intellettuali in Italia[2].
2. L’origine storica della professione di ragioniere
Le tracce più antiche a noi pervenute di inventari, bilanci e rendiconti sono costituiti da tavolette di argilla usate dai Sumeri circa 3000 anni prima della nascita di Cristo: ovviamente, si tratta di indicazioni essenzialmente semplici, per lo più basate su numeri, e destinate a rendicontare i risultati dei prodotti derivanti da attività agricole o commerciali[3]. Le stesse tracce, con le medesime finalità, sono da riscontrare in Egitto, dove sulle tombe dei notabili dell’epoca è dato rinvenire l’inventario di tutti i loro beni e, talvolta, persino il nome dell’amministratore dei beni del padrone, raffigurato sulle pareti per poter vegliare per l’eternità il patrimonio affidatogli.
Agli albori della civiltà umana, quindi, le funzioni di rendicontazione e di inventariazione erano affidati a quella speciale casta sociale, che era depositaria dell’arte di scrivere e di tramandare le informazioni: i primi contabili dell’umanità furono, pertanto, gli scribi, maestri della scrittura geroglifica o cuneiforme, depositari dei segreti tramandati, secondo la mitologia egizia, dallo stesso dio Thot.
Il termine “ragioniere” e “ragioneria” affonda, invece, le sue origini nella parola latina “ratio”, che indicava, oltre alla capacità intellettiva, l’operazione attinente al conto, computo, e così via. Il “rationale” era quindi, nel sistema economico romano, quello che oggi noi definiremmo “contabile”.
La caduta dell’Impero Romano d’Occidente segnò una fase di stagnazione per la cultura occidentale: anche nel campo delle scienze aziendalistiche, si verificò questo fenomeno, a causa delle peggiorate condizioni politiche, economiche, sociali e culturali in cui versava l’Europa. Solo dopo l’anno 1000 si registrò un rifiorire dell’arte, della cultura e dei traffici commerciali, che produsse indubbi benefici anche con riguardo al tenore di vita dell’epoca. In particolare, questo rinnovato spirito mercantile che sembrò attraversare l’Europa nei secoli XII e XIII comportò una successiva problematica, ovverosia la necessità per i commercianti di dotarsi di un adeguato sistema che permettesse loro di avere sotto controllo i propri affari, visto che, come saggiamente osserva un autorevole studioso del Rinascimento Italiano, “non tutti hanno a disposizione una memoria come quella dell’ambasciatore di Pirro, il quale, dopo soli due giorni di soggiorno a Roma, era in grado di chiamare per nome tutti i senatori”[4].
Un primo passo in avanti fu compiuto quando Fibonacci introdusse in Europa i numeri arabi, molto più facili da usare rispetto ai complicati meccanismi della numerazione romana. Ma ciò non bastava ancora a rendere conto degli affari in maniera completa: ci voleva un metodo che permettesse l’annotazione sistematica di ogni evento aziendale. Questo metodo è, come ben sappiamo, quello della Partita Doppia: noi no vogliamo in questa sede risolvere la vexata quaestio di chi abbia inventato tale procedimento, rimandando il lettore a più specializzate letture sull’argomento. A noi preme sottolineare qui che il suddetto metodo contabile fu portato a conoscenza degli operatori dal matematico Luca Pacioli da Sansepo1cro, il quale, nel 1494, pubblicò a Venezia il suo famoso lavoro “Summa de arithmetica, geometria, proportioni et proportionalità”, dove[5], nel spiegò brillantemente come registrare le operazioni aziendali con un metodo dotato di precisione e rigore scientifico. Per le professioni contabili la sua divulgazione costituisce una pietra miliare, essendo tale metodo quello adottato fino ad oggi in ogni parte del mondo.
La nascita ufficiale delle moderne professioni economico - contabili risale all’istituzione formale del “Collegio de' Rasonati” da parte della Repubblica di Venezia, con un decreto emanato nel 1581. In Piemonte, invece, è documentata intorno al 1620 la creazione dei cosiddetti “liquidatori giurati”, con l’incarico di stendere i “riporti”, le perizie e le liquidazioni in materia giudiziaria.
A Milano i “Ragionati” si organizzarono in collegio nel 1742, ottenendo però solo in un secondo tempo il riconoscimento di funzioni di pubblico interesse.
Solo all’inizio del XIX secolo si provvide, però, a promulgare un regolamento per l’abilitazione all’esercizio della professione di “pubblico ragioniere”: nel 1828, nel Lombardo – Veneto furono infatti istituiti i “ragionieri revisori”. Nel 1836 Papa Gregorio XVI, con ordinanza della “S. Congregazione degli studi” regolamentò la professione di pubblico ragioniere negli Stati Pontifici.
Tuttavia, fu solo con l’Unità d’Italia che si cercò di provvedere in maniera unitaria al riconoscimento giuridico della qualifica di ragioniere quale libero professionista: tale qualifica, infatti, fu riservata soltanto a coloro che, conseguito il diploma, avessero compiuto un periodo di pratica presso uno studio già avviato e superato un esame di Stato[6]. Nel 1879 fu organizzato a Roma il primo congresso nazionale dei ragionieri e, negli anni successivi, vennero costituiti collegi di ragionieri a Modena, Perugia, Bologna e Torino. Comunque, solo nel 1906 si provvide a riconoscere agli operatori contabili lo status di “liberi professionisti”: infatti, la legge n. 327/1906 formalmente riconosceva l’attività del ragioniere quale “libera professione”, subordinandone l’esercizio all’iscrizione presso il collegio di appartenenza. Questo originario riconoscimento si mantenne invariato fino al 1929.
3. L’origine storica della professione di dottore commercialista.
Come abbiamo avuto modo di vedere, la professione del ragioniere ha un suo substrato storico alquanto datato; al contrario, la figura del “Dottore Commercialista” è alquanto “recente” dal punto di vista della formazione ed appare a primo acchito caratterizzata dalla presenza di conflitti con figure affini, che solo oggi si sta tentando di appianare[7]. Onde meglio comprendere il significato della precedente affermazione, è opportuno ripercorrere la storia della nascita della suddetta figura, analogamente a quanto fatto per i ragionieri.
Nella seconda metà dell'Ottocento, sull’esempio di Anversa (1852) e di Parigi (1861),
vennero fondate in Italia le prime “Scuole Superiori di Commercio”:
- la Scuola superiore di commercio di Venezia, con sede a Cà Foscari, inaugurata nel 1868;
- la Scuola superiore d’applicazione di studi commerciali di Genova, sorta nel 1884;
- la Scuola superiore di commercio di Bari, fondata nel l886[8].
Le tre Scuole erano tutte state originate dall’azione congiunta delle forze economiche, politiche e culturali operanti nelle rispettive città, impegnate nel promuovere l’economia locale[9], nell’idea che solo l’istruzione la pratica fossero entrambe necessarie ed importanti per la formazione di una classe di operatori commerciali preparata ed efficiente. Tali Scuole, tuttavia, non riuscirono a fare ciò che si proponevano: infatti, i programmi di insegnamento non abbracciavano lo studio dell’intera economia, ma privilegiavano le materie a carattere pratico, relegando le discipline teoriche fra quelle complementari. Questo limite fu superato nel 1902 con la fondazione dell’Università Commerciale “Luigi Bocconi” di Milano[10]. Tale centro, contrariamente alle su menzionate scuole, si proponeva di “assicurare la completa preparazione dei giovani”, grazie a programmi di studio basati sul connubio fra studi economici ed istruzione professionale[11]. Tra i fattori di successo dell’Università Bocconi ricordiamo, in particolare:
- la durata dei corsi (quadriennale);
- l’introduzione di corsi complementari;
- la presenza, tra il corpo docente, di personalità di alto valore scientifico (si pensi a Luigi Einaudi e a Gaetano Mosca);
- il titolo di “università” che la Bocconi assunse per affermare l’esigenza di un intervento legislativo volto ad elevare a livello universitario le Scuole superiori di commercio, conferendo così ai diplomati il titolo di “dottore in scienze economiche e commerciali”.
L’obiettivo principale dell’Università Bocconi era di rendere più appetibili gli studi economico – commerciali attraverso il riconoscimento dello status giuridico di università e con ciò il rilascio del titolo accademico di dottore. Infatti, ai sensi dello Statuto originario, l’Università rilasciava, al termine dei quattro anni di corso “uno speciale certificato di laurea”, il quale, mancando della formula “in nome di Sua Maestà il Re”, diventava de facto privo di valore agli effetti dei concorsi pubblici, limitando gli sbocchi professionali degli allievi.
Un successivo passo in avanti fu il Regio Decreto 26 novembre 1903, n. 476, con il quale fu concesso alle Scuole di commercio di Venezia, Genova e Bari di rilasciare “un diploma speciale di laurea ... equivalente agli ordinari gradi superiori accademici”. La Bocconi, invece, ottenne il riconoscimento ufficiale dello Stato nel 1906, quando venne promulgato un decreto che attribuiva ai suoi laureati il titolo di “dottore in scienze economiche e commerciali”. Nello stesso anno fu approvato un altro decreto in virtù del quale i laureati delle Scuole superiori di commercio avrebbero assunto il titolo di “dottore in scienze applicate al commercio”[12].
La legge del 20 marzo 1913 diede infine “grado e dignità universitaria”[13] agli istituti superiori di commercio, che assunsero così la denominazione di “istituti superiori di studi commerciali”[14], il che rappresenta un punto cruciale nella diatriba in precedenza accennata[15].
I nuovi dottori in scienze economiche e commerciali cercarono fin da subito di riformare i programmi di studio delle scuole superiori di commercio e, dopo il loro inquadramento negli atenei, quelli delle facoltà di economia e commercio, al fine di differenziarsi dai loro colleghi ragionieri. Durante i lavori della prima “Adunata Nazionale” tenutasi nel 1929, fu avanzata la richiesta di introdurre nei piani di studio materie nuove (come, ad esempio, scienza delle finanze e diritto tributario), per preparare i dottori commercialisti a svolgere la “funzione di esperti fiscali, specializzati nell’assistenza e consulenza tributaria ai cittadini e alle imprese”[16]. Per valorizzare ulteriormente la laurea, i dottori in scienze economiche e commerciali fecero pressioni per precludere l’accesso dei diplomati degli istituti commerciali alle facoltà di economia e commercio e riservarlo, invece, ai soli liceali: tale richiesta, del resto, fu continuamente inoltrata ai competenti organi del Ministero fino all’avvento della Repubblica, il che la dice lunga sulla rivalità tra le due categorie[17].
4. La definizione ufficiale delle funzioni della categoria dei dottori commercialisti
Fin dall’inizio, alcuni diplomati delle Scuole superiori di commercio e, dal 1906, dell’Università Bocconi[18], decisero di porre al servizio delle imprese, in qualità di consulenti esterni, le proprie competenze in materia tecnico - commerciale, giuridica e fiscale, dando origine ad una nuova categoria professionale, quella del dottore commercialista, inserendosi in un campo, dove già operavano altre figure professionali (quali gli avvocati e i ragionieri). La mossa comportò, come ovvio, un’accesa diatriba tra i “vecchi e nuovi arrivati”. Questi ultimi, invero, si trovavano di fronte a due gravi limitazioni, che li ponevano in una situazione di inferiorità rispetto ad entrambe le suddette categorie:
- i diplomati delle Scuole superiori di commercio e dell’Università Bocconi non avevano né un riconoscimento ufficiale del titolo di studio, né una tutela legale da parte dello Stato;
- gli avvocati ed i ragionieri avevano ottenuto, attraverso la creazione rispettivamente dell’Ordine e del collegio[19], il riconoscimento e la difesa del titolo professionale.
Onde superare questo handicap, i dottori commercialisti che avevano scelto di esercitare la libera professione, cercarono in tutti i modi di ottenere il riconoscimento della nuova categoria, come pure l’assegnazione di funzioni proprie ed esclusive per la nuova figura professionale[20]. Le associazioni di categoria, nell’attesa di un provvedimento legislativo in tal senso, provvidero ad istituire ufficiosamente i primi ordini professionali a livello provinciale: nel 1911 se ne contavano già 11. Nello stesso anno, durante il primo congresso nazionale dei dottori in scienze economiche e commerciali e dei dottori in scienze commerciali tenutosi a Torino, fu presentata la richiesta di riconoscere ai dottori in scienze commerciali la preferenza su qualunque altro professionista nell’esercizio delle “funzioni professionali in cui più spiccatamente “è necessaria la conoscenza della tecnica commerciale, quali le liquidazioni, le perizie commerciali, le curate le fallimentari, i concordati preventivi e l’ufficio di commissario giudiziale”[21].
Nel 1913, a Milano, alcuni laureati della Bocconi, insieme con altri colleghi di Torino, diedero vita al primo “albo dei dottori in scienze economiche e commerciali esercenti la libera professione”, composto da venti iscritti, tre quarti dei quali si erano laureati all'università milanese[22]. Sempre nel 1913 la Camera di commercio di Milano pubblicò l’elenco per il successivo triennio, dei curatori fallimentari: ciò suscitò le ire di alcuni ragionieri milanesi, in particolare circa i due anni di pratica richiesti ai laureati, contro i quattro previsti per i ragionieri. La Camera di Commerciò non volle prendere in considerazione tali manifestazioni di disappunto e, pertanto, i ragionieri decisero di presentare la questione al Consiglio di Stato, il quale, nel settembre dello stesso anno, respinse l’istanza, argomentando che “gli studi posteriori e superiori cui si assoggettavano i laureati in scienze economiche e commerciali erano equiparabili a due anni di pratica professionale”[23]. Il suddetto risultato favorì la volontà dei laureati in scienze economiche e commerciali che svolgevano la libera professione di costituire un gruppo definito, il che portò alla costituzione della Federazione nazionale fra le associazioni dei dottori in scienze economiche e commerciali e degli antichi allievi delle Scuole superiori di commercio: questo organo nazionale, a carattere unitario, aveva l’obiettivo di “ottenere l’integrazione di diritti già ufficialmente riconosciuti, e l’aggiungersi di nuovi indispensabili per gli associati che si dedicano alla libera professione”[24]. Fu proprio da questa assemblea che derivò la nuova denominazione di “dottore commercialista”.
Tuttavia, va precisato che la sentenza del Consiglio di Stato del 1913, se da un lato aprì la strada all’iscrizione dei dottori commercialisti agli albi ufficiali dei tribunali di molte città, dall’altro non pose le premesse per un intervento normativo volto disciplinare la professione.
Nel primo dopoguerra, le associazioni dei laureati in scienze economiche e commerciali di Milano e di Torino accentuarono i loro sforzi per ottenere una convalida istituzionale degli albi professionali dei dottori commercialisti. Intorno alla metà del 1920 sorse l’Ordine dei Dottori in Scienze Commerciali per il distretto della Corte di Appello di Milano. Il 4 marzo 1921 fu presentata alla Camera dei Deputati una proposta di legge[25] sul riconoscimento ufficiale dell’Ordine, dove veniva disciplinata la costituzione degli Albi e degli Ordini, sulla falsariga della normativa vigente per gli Avvocati ed i Procuratori. Inoltre, venivano elencate le funzioni dei Dottori in Scienze economiche, che risultavano più numerose rispetto a quelle riconosciute ai ragionieri[26]:
- consulenza finanziaria, economica ed amministrativa;
- perizie in materia commerciale, civile e penale e delle relative scritture;
- costituzione, modificazione, fusione, scioglimento di società commerciali, compilazione di statuti;
- organizzazione di uffici amministrativi pubblici e privati e impianti contabili;
- formazione e revisione di:
· inventari;
· preventivi di fondazioni e d’esercizio;
· piani d’ammortamento;
· rendiconti consuntivi;
- direzione amministrativa e contabile di aziende bancarie, commerciali, industriali ed agricole;
- sindacati nelle società per azioni;
- amministrazioni patrimoniali;
- divisioni ereditarie;
- tutele e curatele;
- liquidazioni volontarie;
- concordati preventivi;
- curatele fallimentari;
- graduatorie giudiziarie;
- sequestri giudiziali;
- arbitramenti in controversie economiche e motivati pareri;
- contrattazioni di borsa;
- contratti d’assicurazione;
- legislazione del lavoro;
- usi bancari, industriali, commerciali, marittimi ed agricoli.
Quanto all’organizzazione territoriale, nel disegno di legge si ipotizzava un ordine professionale articolato in “tanti collegi quanti sono i centri giurisdizionali secondo la circoscrizione giudiziaria dello Stato”[27].
Il su accennato progetto di legge rimase, purtroppo, senza esito, a causa delle vicende politiche di quegli anni, a seguito delle quali lo stesso Presidente del Consiglio Giovanni Giolitti si vide costretto a sciogliere il Parlamento e ad indire nuove elezioni politiche per il 15 maggio 1921.
Nel 1923 il ministro della Giustizia Oviglio, presentando un disegno di legge sul riconoscimento giuridico della professione di dottore commercialista, si dichiarò propenso a riconoscere ai dottori in scienze economiche e commerciali esercenti la libera professione un proprio riconoscimento giuridico[28]. D’altronde, una tale presa di posizione, ovviamente, destò non poche preoccupazioni nei ragionieri, i quali sostenevano che la professione del dottore commercialista non fosse diversa da quella del ragioniere e proponevano “la fusione in un unico organismo di quanti avevano compiuto studi di ragioneria”[29].
Il decreto n. 103 del 24 gennaio 1924 stabilì che le categorie professionali non ancora regolate dalla legge venissero costituite in “ordini” se composte da laureati o diplomati presso università e istituti superiori, in “collegi” se formate da diplomati di scuola secondaria superiore.
Alcuni mesi dopo, si tenne a Roma una riunione a cui parteciparono i vertici dei ragionieri e dei dottori in scienze economiche e commerciali per cercare di raggiungere un’intesa tra le due professioni, ma la totale divergenza tra le due categorie professionali impedì qualsiasi tipo di accordo.
Nell’aprile del 1925 l’Accademia dei ragionieri mutò il proprio nome in “Accademia dei ragionieri e dottori in commercio e ragioneria” e rese eleggibili come vicepresidenti un dottore e un ragioniere, modificando lo statuto “per rendere anche esteriormente visibile il pieno accordo”[30]. Tuttavia, i dottori in scienze economiche e commerciali non intendevano recedere dalle loro posizioni e continuarono ad esercitare pressioni sull’Esecutivo per ottenere il riconoscimento come categoria autonoma.
Dal canto loro, nel 1925 i ragionieri proposero un disegno di legge sulla riforma dell’ordinamento scolastico, il quale attribuiva al diploma rilasciato dagli istituti tecnici il valore di semplice licenza, mentre il titolo di ragioniere avrebbe dovuto essere riservato per l’avvenire ai soli laureati negli istituti superiori, dopo un tirocinio di due anni. Ovviamente, tale proposta trovò una decisa opposizione da parte dei dottori commercialisti, i quali la interpretarono come un tentativo volto a ritardare l’attuazione del regolamento per la professione di dottore commercialista. La Federazione nazionale dei dottori in scienze economiche e commerciali presentò al Ministero di Grazia e Giustizia una controproposta, che prevedeva la costituzione a livello provinciale degli ordini dei dottori commercialisti ed assegnava il titolo di “commercialista” ai soli laureati. Come è facile supporre, tale proposta non incontrò il favore della Federazione nazionale dei ragionieri; ma contro di essa si schierò anche la Federazione forense, che considerava infondata la pretesa dei laureati in scienze economiche e commerciali di ottenere l’esclusività di tutte le funzioni di tutela, curatela e amministrazione[31].
Alla fine, nel novembre del 1926, i ragionieri ed i dottori in scienze economiche e commerciali riuscirono a trovare un accordo, che rappresentava, da un lato, un compromesso tra le due diverse posizioni e, dall’altro, salvaguardava i diritti dei ragionieri già iscritti ai collegi e degli impiegati che venivano inseriti negli albi residui non potendo entrare a far parte del nuovo albo. In pratica, si decise di istituire l’albo dei commercialisti, ai quali sarebbe spettato l’esercizio pubblico ed esclusivo della libera professione, comprendente:
- i dottori in scienze economiche e commerciali;
- i dottori in ragioneria liberi professionisti aventi almeno due anni di pratica (ridotti a uno per i combattenti);
- i ragionieri diplomatisi prima della riforma dell’ordinamento scolastico del 1923, appartenenti al collegio e con almeno sei anni di libero esercizio professionale (diminuito a tre per i combattenti)[32].
Esso non costituì, come invece avrebbe dovuto, la base per emanare il regolamento della professione di commercialista, perché, nel corso dei due anni successivi, i dottori in scienze economiche e commerciali assunsero una posizione di netta intransigenza.
Nel febbraio del 1928, il Ministro di Grazia e Giustizia Fedele, nominò una commissione ministeriale per preparare una proposta di legge sulla delimitazione del campo professionale delle due categorie.
Tale commissione optò per la divisione giuridica delle due professioni e nel 1929 furono emanati due distinti regolamenti professionali, uno riferito ai soli ragionieri e l’altro riguardante gli esercenti in materia di economia e commercio.
Questo provvedimento costituì una tappa importante nel processo di professionalizzazione del dottore commercialista, in quanto, per la prima volta, la professione venne riconosciuta e disciplinata sotto il profilo giuridico; tuttavia, esso non accolse completamente le aspettative dei dottori in scienze economiche e commerciali, che, per tale ragione, rimasero scontenti, in quanto le loro richieste non erano state pienamente accolte.
Le critiche dei dottori in scienze economiche e commerciali si incentrarono in particolar modo sul titolo professionale, ossia il possesso della laurea, che rappresentava la discriminante sulla quale essi avevano insistito per dimostrare la diversità della propria professione. All’albo degli esercenti in materia di economia e commercio potevano, infatti, essere iscritti non solo i laureati degli istituti superiori di scienze economiche e commerciali e delle facoltà e scuole di scienze economiche, politiche e sociali a cui spettava il titolo di “dottore in economia e commercio”, ma anche i ragionieri con sei anni di attività professionale. Inoltre, notevoli perplessità suscitò l’art. 3 del regolamento, ai sensi del quale erano di competenza degli esercenti nel campo economico e commerciale gli incarichi “in materia di commercio, economia, finanza e amministrazione”. Tuttavia, poiché il provvedimento non attribuiva ai dottori funzioni esclusive, si generarono conflitti di interesse con le categorie affini. Infine, i dottori in scienze economiche e commerciali obiettarono che il suddetto regolamento non prevedeva alcuna sanzione contro l’esercizio abusivo della professione.
Va inoltre ricordato che l’art. 5 del più volte richiamato regolamento introdusse, fra i requisiti necessari per l’iscrizione all’albo, il superamento dell’Esame di Stato, come previsto per le altre libere professioni. Ma tale norma non fu accompagnata da disposizioni per la sua attuazione, le quali furono emanate solo nel 1932 per i laureati dall'anno accademico 1932 – 1933[33]. Per tutti coloro che alla data del 31 dicembre 1923 avevano conseguito la laurea o comunque si trovavano all'ultimo anno di corso, la laurea costituiva tanto il titolo accademico quanto il diploma di abilitazione professionale.
Nel corso degli anni Trenta il Sindacato dei dottori in scienze economiche e commerciali cercò di ottenere la soluzione dei problemi che il regolamento del 1929 aveva lasciato aperti[34]. I rapporti con i ragionieri continuarono ad essere altalenanti fino a quando, alla fine del 1934, le due categorie aderirono ad uno schema comune di convenzione, con cui si stabiliva che all’esercizio della professione in materia di ragioneria, commercio e finanza fossero abilitati esclusivamente gli iscritti all'albo dei professionisti in economia e commercio. L’iscrizione era subordinata al conseguimento della laurea in scienze economiche e commerciali e al superamento dell’esame di Stato, dopo un periodo di pratica di due anni. Alla professione sarebbero state riconosciute competenze esclusive sancite per legge. Con norma transitoria si sarebbe provveduto ad inserire nell’albo dei professionisti in economia e commercio i ragionieri liberi professionisti. Per l’avvenire si stabiliva che gli istituti tecnici commerciali non avrebbero più rilasciato il diploma di ragioniere ma di “perito commerciale”, titolo che non avrebbe permesso di accedere alla libera professione.
Nel 1939 fu istituita una commissione governativa con l’incarico di creare un’unica categoria professionale, ma lo scoppio della Seconda Guerra Mondiale impedì alla Commissione di portare a termine tale compito.
5. La diatriba tra i due ordini professionali dal secondo dopoguerra ad oggi.
Come già detto in conclusione del precedente paragrafo, il processo di professionalizzazione del dottore commercialista non poteva dirsi concluso con l’entrata in vigore del regolamento del 1929, poiché esso non aveva definito i confini entro i quali esercitare il monopolio professionale, né aveva dato una denominazione univoca e precisa della professione stessa.
Nel 1944 furono creati gli ordini professionali ed il consiglio nazionale. Per la prima volta era attribuita ai dottori commercialisti la possibilità di autoregolarsi, in quanto vennero conferite ad organi interni alla categoria le competenze in materia di custodia dell’albo, di disciplina e rispetto della deontologia professionale.
Nel 1945 l’Ordine dei dottori commercialisti di Roma fece pressioni sul Ministero di Grazia e Giustizia perché venisse modificato il regolamento ancora vigente. Nell’ottobre di quello stesso anno fu costituita una commissione che arrivasse ad una definizione della professione e del suo oggetto, affrontando, in tal modo ed una volta per tutte, la questione ancora aperta con i ragionieri[35].
Contrariamente a quanto avvenuto in passato, i dottori commercialisti iniziarono a guardare favorevolmente la fusione fra le due categorie, consapevoli che questo era l’unico modo per ottenere dallo Stato il riconoscimento di competenze esclusive[36].
Il 28 maggio del 1947 iniziarono a Roma, presso la sede della Federazione dei collegi dei ragionieri, le trattative per l’unificazione delle due categorie in un solo organo, ma questo tentativo non andò a buon fine, in quanto, alla fine dello stesso anno, la Federazione nazionale dei ragionieri ritenne che le proposte di regolamento dell’ipotetico organismo unico ledevano gli interessi dei ragionieri. A seguito di questa presa di posizione, si provvide ad emanare, nel 1953, due distinti ordinamenti, sancendo il principio secondo cui la specificazione delle funzioni non dovesse pregiudicare le altre attività professionali.
L’ordinamento del 1953 introdusse per la prima volta il termine “dottore commercialista”: nel regolamento del 1929 il legislatore aveva usato la denominazione di “esercente in materia di economia e commercio”. Tuttavia la terminologia utilizzata era molto confusa; infatti, nello stesso testo, venivano usati altri termini (quali, ad esempio, “dottore in economia e commercio” e “esercenti la professione in materia di economia e commercio”). Nella legge del 25 aprile 1938 veniva invece usata l’espressione “professionisti in materia di economia e commercio”. Il termine di “dottore commercialista” compare per la prima volta in un atto ufficiale nell’art. 33 della legge sulla consulenza tributaria emanata nel giugno 1936 e, successivamente, nel decreto sulla tariffa professionale del 1941. Il regolamento del 1953 attribuiva al libero professionista una “competenza tecnica nelle materie commerciali, economiche, finanziarie, tributarie e di ragioneria”, prevedeva l’obbligo del segreto professionale[37]. Venivano altresì definite le seguenti attività che formavano l’oggetto della professione:
- amministrazione e liquidazione di aziende, patrimoni e di singoli beni;
- perizie e consulenze tecniche;
- ispezioni e revisioni amministrative;
- verifica dei bilanci e di ogni altro documento contabile delle imprese;
- regolamentazione e liquidazione di avarie;
- funzioni di sindaco e revisore nelle società commerciali.
Ad un confronto tra i due regolamenti del 1953, non può sfuggire che, in effetti, le funzioni attribuite ai dottori commercialisti non si differenziavano sostanzialmente da quelle dei ragionieri[38]. Le motivazioni della mancata attribuzione di competenze esclusive addotte dalla commissione governativa incaricata di redigere l’ordinamento per le due su richiamate professioni possono riassumersi nei seguenti punti:
- il fatto che la professione del dottore commercialista non era rappresentata ull’intero territorio nazionale;
- la volontà di non ledere gli interessi dei ragionieri, “avendo le due professioni molteplici attività in comune”[39].
Come è facile intuire, la mancata attribuzione di competenze esclusive perpetuò una reciproca interferenza di funzioni tra dottori commercialisti e ragionieri, consentendo che, nella materia oggetto delle due professioni, si inserissero con il tempo altre figure professionali[40].
In altre parole, nella centenaria storia della figura del dottore commercialista, possiamo rintracciare una costante: la costante richiesta dell’attribuzione di funzioni esclusive, che lo Stato non ha mai voluto prendere seriamente in considerazione[41].
Questo obiettivo poteva essere raggiunto attraverso la fusione con la categoria dei ragionieri, dando vita ad una nuova ed unica categoria professionale. Ma, purtroppo, gli interessi di parte prevalsero sul buon senso, come del resto l’illustre Poeta[42] sapientemente profetizzava ben ottocento anni prima.
Alla beffa si aggiungeva il danno: infatti, non solo sfumava per entrambe le categorie la possibilità di ricevere competenze esclusive, ma rimaneva inalterato l’attrito tra le due categorie, che, anzi, risultava essere ancor più acuito dall’entrata in vigore degli ordinamenti del 1953. La diatriba tra le due categorie professionali si era riaccesa anche a seguito della mossa dei ragionieri di utilizzare il titolo di “ragioniere commercialista” nei biglietti da visita e nelle targhe degli studi professionali. Nel 1959, al congresso nazionale dei ragionieri tenutosi a Bologna, fu approvato un ordine del giorno con il quale si affermava che “l’uso dell’aggettivo «commercialista» è semplicemente qualificativo del contenuto dell’attività professionale dei ragionieri”, esprimendo inoltre piena solidarietà a quei professionisti della categoria che ne facevano uso[43].
Ad onor del vero, ripercorrendo queste pagine di cronaca storica, non possiamo evitare di rievocare quella bellissima pagina del Manzoni, il quale, nel descrivere il viaggio di Renzo Tramaglino verso lo studio dell’avvocato Azzeccagarbugli, si sofferma nel descrivere con estrema dovizia di particolari l’atteggiamento dei polli (che rappresentavano il compenso per il parere legale): essi, infatti, non curandosi della sorte che di lì a poco tutti quanti avrebbero subito, preferivano beccarsi tra di loro. L’Autore conclude constatando – non senza un pizzico di amarezza – che il comportamento degli Italiani del suo tempo assomigliava tanto a quello tenuto dai polli. Lasciamo ai lettori “l’arduo compito” di trarre le conclusioni su questa digressione letteraria che, ci si consenta, non potevamo non trasmettere nel nostro intervento.
6. Il processo di riunificazione
La tendenza all’unificazione dei due ordinamenti professionali riaffiorò nel 1979 in un progetto di legge-quadro comprendente le proposte di legge n. 575 e n. 956, rispettivamente per i dottori commercialisti e per i ragionieri.
Secondo i rispettivi Consigli nazionali, l’istituzione di un unico ordine con albi separati avrebbe comportato i seguenti vantaggi[44]:
- eliminazione dei conflitti esistenti tra le due categorie professionali;
- maggiore credibilità dei professionisti operanti nel campo economico-aziendale;
- maggior peso politico ai fini della lotta contro l’abusivismo;
- unificazione delle due Casse di previdenza e conseguente soppressione delle doppie pensioni;
- attribuzione ad un unico organo del potere disciplinare e direttivo.
Nel 1981, un’indagine del Consiglio nazionale dei ragionieri e periti commerciali ha evidenziato che la quasi totalità dei ragionieri collegiati riteneva opportuna la costituzione di un unico ordine, “data l’identicità di competenze professionali”. Invece, la maggior parte dei dottori commercialisti appariva contraria all’ipotesi di unificazione in quanto tale atto, equiparando categorie professionali simili ma pur diverse, negherebbe al dottore commercialista la superiorità del titolo di studio ed il diverso iter formativo e professionale[45].
Col passare del tempo, tuttavia, una parte sempre più consistente dei dottori commercialisti è diventata disposta a sostenere la proposta di unificazione a condizione, però, che la stessa si traduca, realmente, nella delimitazione di un sicuro terreno di esclusiva, al solo vantaggio delle due categorie.
Su questo terreno si è effettivamente mosso l’attuale Esecutivo, giungendo a varare una riforma epocale, che, salvo sorprese dell’ultima ora, dall’anno prossimo dovrebbe scrivere la parola “fine” per una diatriba che ormai da troppo tempo attanaglia i liberi professionisti delle due più volte richiamate categorie professionali.
Invero, il problema non è quello di unificare i possessori del titolo di “dottore commercialista” con chi invece si fregia dell’altro pur insigne qualifica di “ragioniere commercialista”, vedendolo come un torto nei confronti dell’una categoria, ovvero un eccessivo privilegio per l’altra. Il nodo centrale sta nella tutela delle competenze specifiche del consulente: “L’unione fa la forza”, dice un antico proverbio, il che si dimostra veritiero anche nel nostro caso. Solo unite le due categorie potranno affrontare la sfida del terzo millennio, offrendo competenza, specializzazione e professionalità alla propria clientela. Piuttosto che belligerare l’uno contro l’altro, è opportuno che ci si unisca, convogliando le forze verso un comune obiettivo, ovverosia la tutela delle competenze e della professionalità della nobile figura del “commercialista”, nel rispetto del diverso percorso di studi svolto e nella suddivisione chiara e netta dei ruoli professionali.